Intervista a cura di Daniele Fontana apparsa sul mensile Confronti, in qualità di membro del gruppo di riflessione “Prospettive Socialiste”.
Confronti: In una prospettiva sociale (e culturale), prima ancora che politica, come quella odierna ha ancora senso cercare di (ri)precisarsi sempre di più di sinistra con la prospettiva di ridursi progressivamente in una dimensione di marginalità? Perché non sarebbe preferibile ‘andare incontro’, ascoltare, parlare, cercare di capire una maggioranza anche vasta della popolazione, scontando il rischio di uno slittamento a destra?
A.V.: Cercare di (ri)posizionarsi maggiormente a sinistra non vuol certo dire andare contro una maggioranza vasta della popolazione. Anzi, proprio per cercare di intercettare meglio i bisogni di questa maggioranza è necessario rinforzare la politica di sinistra. La maggioranza di cui parli, è quella che più ha subìto e ancora subisce i danni della politica neoliberale.
Pensiamo ai disagi e ai costi delle privatizzazioni, come quella della Posta; al costante tentativo di riduzione delle prestazioni sociali; ai danni causati da un’Europa dominata dall’economia e dalla finanza a scapito della politica. La destra è stata capace, in questi ultimi casi, di trarne vantaggio accusando lo straniero di sottrarci i posti di lavoro o di sperperare gli aiuti sociali. Ma il problema non è questo; mi verrebbe da dire che il problema non è culturale o sociale, è politico. È la politica che deve con forza rimettersi al centro della società cercando le soluzioni a questi problemi che sono il frutto di una sua perdita di forza nei confronti dei settori economico-finanziari. Si pensi anche all’attuale crisi, la politica si è subito chinata difronte ai bisogni dell’economia e della finanza, facendo più fatica nei confronti della popolazione.
In Europa, negli ultimi decenni i partiti di sinistra si sono spinti sempre più verso il centro, alla ricerca di quella maggioranza di cui si diceva prima; ma il fallimento di questa terza via è sotto gli occhi di tutti. Se un partito che ancora, fortunatamente, si definisce socialista vuole scegliere vie diverse da quelle che la sua stessa tradizione politica imporrebbe, tanto vale dichiararlo morto e far nascere un nuovo partito basato su una tradizione tutta da inventare. È quel che è successo in Italia, con la nascita del Partito Democratico. Questo è un partito talmente privo di tradizione, e quindi di valori riconoscibili, che sia gli ex elettori di sinistra che quelli di centro invece di riconoscersi in questo «incontro» si sentono smarriti. In questo modo quelli di centro cercano garanzie nella nuova destra di Fini, e quelli di sinistra nei nuovi movimenti populisti che sembrano stare a sinistra, come quelli di Di Pietro o di Grillo.
Confronti: Una questione che sovente agita e divide la sinistra è quella legata a una partecipazione alle responsabilità di governo contrapposta a una forma di opposizione permanente al sistema. Come risolvere questa antitesi oggi, quando le forme radicali di alternativa al sistema imperante si sono risolte in un fallimento materiale?
A.V.: La questione della partecipazione al governo, e quindi alle sue responsabilità, agita e divide perché è una questione molto complicata. Questa corresponsabilità di governo, dovuta al particolare sistema politico elvetico, ha evidentemente pregi e difetti. Pregi perché permette di influenzare, e in un certo senso controllare, l’azione di governo; difetti perché formalmente tutti i membri dell’esecutivo, quindi anche i socialisti, sono collegialmente responsabili di quelle azioni.
Credo che il problema non sia la partecipazione al governo in sé. Il problema è cosa deve fare un socialista una volta che entra in un esecutivo. Per esempio, c’è una grande differenza tra l’essere un ministro socialista che si fa promotore delle privatizzazioni delle grandi aziende pubbliche e un ministro socialista che lotta per un servizio pubblico forte, o che alla peggio quel tipo di politica lo subisce suo malgrado. Nel primo caso ci si può giustamente chiedere che senso abbia avere un ministro che opera in contrasto con i nostri ideali; nel secondo si può anche pensare che tutto sommato, anche senza riuscire a trasformare radicalmente il sistema vigente, è bene che ci sia un socialista che provi, e possibilmente riesca, a porre degli argini alla deriva neoliberale.
Il problema è che spesso i socialisti che occupano i posti degli esecutivi ai diversi livelli, sono i meno socialisti che il partito sa offrire. Poi, il fatto stesso che la scelta dei membri dei governi dipenda anche – e non poco – dai voti degli altri partiti, tramite gli elettori o i deputati a dipendenza dell’organo da eleggere, fa sì che i ministri eletti siano quasi sempre quelli che più aggradano ai partiti avversari. Questo discorso vale non solo per noi socialisti, ma anche per gli altri partiti. Bisognerebbe trovare il modo di vincolare maggiormente i ministri alle scelte del partito.
Ciò che più conta è non dimenticarsi dei bisogni reali della popolazione, e quindi continuare ad opporsi fuori dal governo a scelte sbagliate, anche se prese collegialmente. I mezzi che la nostra democrazia offre sono molti, e che ad usarli sia un partito di governo non è certo un controsenso.